“Quell’amara vittoria del 4 novembre”
Alla fine del mese di giugno 1918, dopo una serie di numerosi e violenti attacchi, sul fronte dell’altopiano gli italiani riconquistavano definitivamente Col del Rosso, il Monte Valbella e il Col d’Ecchele, anche con il contributo delle truppe inglesi e francesi. Come ha scritto Gianni Pieropan: “L’immane conflitto si avviava ormai alla conclusione e infatti, per effetto degli eventi verificatesi sul Grappa e sul Piave, a fine ottobre 1918, la sesta Armata muoveva dalle sue posizioni liberando completamente l’altopiano dei Sette Comuni”. I reparti austro-ungarici si ritirarono prima sulla linea di Lavarone e Folgaria, poi su Trento. Il 4 novembre a villa Giusti presso Padova, venne firmato l’armistizio e sull’altopiano cessava il frastuono delle armi. Le distruzioni, le perdite di vite umane militari e civili, i dispersi, i feriti e i mutilati, le sofferenze in ogni ambito della vita individuale e sociale, furono incalcolabili e inenarrabili. Giuseppe De Mori nel volume “Vicenza nella Guerra 1915-1918” scriveva: “di fiorenti centri abitati come Asiago, Gallio, Foza, Treschè-Conca, Roana, Rotzo, non rimase più quasi il nome di dette località, come in altre dell’altopiano stesso e dei punti più battuti della Valbrenta, la percentuale dei fabbricati interamente distrutti e resi completamente inabitabili raggiunse l’altissima quota del 95 per cento. E questo senza tener conto del danno incalcolabile e della distruzione di magnifici boschi di cui il Veneto era giustamente superbo e nonché dell’ingombro delle valli montane per i detriti delle opere militari”.
La vittoria del 4 novembre, ha scritto Mario Rigoni Stern, “fu una vittoria amara per la mia gente, perché tutto la Grande Guerra ci aveva distrutto, costumi, lingua, paesi, ambiente. L’altopiano era come un paesaggio lunare, senza vita apparente, dopo quasi quattro anni di ininterrotte battaglie.” Ancora Mario Rigoni Stern, nel suo libro “L’anno della vittoria”, descrive con disperata evidenza quella devastazione dinanzi allo sguardo di Matteo, tornato ad Asiago dal profugato: “Matteo e suo padre guardavano con il cuore stretto, senza parlare: quelle per loro non erano solamente macerie, ma la fine di un mondo… Forse queste cose i due non le sapevano per istruzione ma lo sentivano d’istinto perché erano parte di queste macerie di case, di questi boschi senza più alberi vivi, di questi prati senza erba”. “Si chiude il centenario” ha scritto in questi giorni lo storico Paolo Pozzato, “ma restano le ragioni per studiare la Grande Guerra”, nei suoi aspetti dimenticati, in tanti suoi aspetti mascherati e falsificati. Restano le ragioni per capire le conseguenze di quell’evento che ha cambiato non solo l’altopiano, ma anche l’Europa e il Mondo, avviando processi di trasformazioni che coinvolgono il nostro presente e il nostro futuro. Basta pensare al processo di integrazione europea che ha preso una spinta decisiva dalla catastrofe di quel conflitto definito da alcuni “suicidio d’Europa”, ma che altri ritengono “seme d’Europa”. In questa direzione Paolo Pozzato suggerisce ancora: “Oggi una riflessione approfondita sulla Grande Guerra potrebbe rilanciare l’integrazione europea anche alla luce di quanto sta avvenendo sotto il profilo economico-sociale”. Così la storia non si riduce a rievocare il passato, ma aiuta a capire il presente e costruire l’avvenire.