Il profugato del maggio 1916 è stato anche il tema di un poemetto scritto da Egidio Puller in dialetto veneto, un dialetto “che sta tra el visentin e el padovan”, come dice l’autore, un poeta dilettante di Padova molto legato all’altopiano, anche per il rapporto con la nonna paterna che era una Lobbia di Asiago. Il poemetto è stato letto per la prima volta il 2 settembre 1917 al teatro Concordi di Padova, alla presenza di molti asiaghesi profughi. Il racconto è scorrevole e colorito, molto realistico nei particolari, con il valore quasi di una testimonianza storica. Esso inizia descrivendo la mattina di primavera del 15 maggio in centro ad Asiago “co l’aria tepida, co ‘l ciel seren – quasi promessa de solo ben”. La gente che si avvia ai lavori, per le strade qualche pattuglia di militari… E verso le sette, tre aerei nel cielo, i “taubes” e una prima esplosione… “No la xè bomba, no, de reoplan, (i dixe) el colpo vien da lontan”. Seguono altre due bombe, i primi morti. Carabinieri e soldati per le strade “a sigar con forza: via,via, scapè. Dei superiori ordine el xè; presto, via subito, senza spetàr, la vita vostra pensè a salvar”. Dover partire subito, all’improvviso “co gnanca un giorno sol de preaviso”. Sotto le bombe parte la popolazione con una straziante sequenza di particolari. “Mamme se vede coi puti in fasse, omeni, tose carghi de strasse, e vecci e vecce co fagotei, putele a sciapi, tanti putei. Chi a man o in spala porta valise con un fià de tuto, calze e camise; chi soto un brazzo gà un sacco grosso, chi ‘na coverta s’à butà adosso; chi gà cuscini, scatole, ombrele, che tute sgionfe ga le scarsele; chi dominarse abastanza sa, chi dall’angossa par insempià. E l’un da l’altro ciamar se sente, mentre i più piccoli se tira rente de la so mama o del papà e i ghe domanda: dove se va? I ghe risponde co ‘na caressa, opur dicendo: tasi belessa, dove che andemo ti non pensar, svelto camina, no te stracar”. Vengono trasportati via vecchi, ammalati. Gli animali sono abbandonati nelle case, nelle stalle, nei pascoli, per le strade…
Arrivati in pianura, i profughi trovano chiuse le porte. “Se con fagotti, con qualche sporta, un de noaltri batea la porta, i rispondeva: qua no ghè logo; e manca legne per fare el fogo”. A Vicenza i profughi devono accamparsi in Campo Marso e dormire sull’erba all’aperto, trattati come spie dei tedeschi e come traditori. Puller insorge fortemente contro questo trattamento e difende il sentimento patriottico italiano della gente dei Sette Comuni, dimostrato lungo tutta la sua storia. Egli ricorda l’aiuto portato ai profughi da alcuni sacerdoti come don Giuseppe Rebeschini di Roana e don Guido Mazzocco vicario di Asiago, e da giovani studenti come i fratelli Giuseppe e Angelo Costa di Asiago. Puller saluta da lontano Asiago con parole colme di affetto: “O cara Asiago, scolpìa nel cuor come l’imagine del primo amor. Povara martire de causa santa, co la natura che il mondo incanta, ritorna bela de nova vita, dopo la barbara mortal ferita”. Da lontano Puller sogna la sua Asiago con le nuove realizzazioni, come la ferrovia, con tante bellezze spazzate via dalla guerra. “Trincee se vede, pali piegai, ‘ntel fil de fero ingrovigliai, caminamenti a zighe zaghe, resti de zaini, tochi de braghe… segni de lotta aspra, accanita, de chi a la Patria gà dà la vita”. L’altopiano ridotto a un cumulo di rovina e di morte, diventerà nel sogno un “immenso altare”, luogo di memoria e di preghiera. Puller termina il suo piccolo poema con una condanna di tutte le guerre e con accenti di cordiale preghiera per la pace: “Signore ascolta la nostra istanza: l’amor, la fede, la fradelanza spandi sui popoli! Vegna la pase, de novo dentro le nostre case”.