L’ultimo film di Ermanno Olmi è strettamente legato all’Altopiano. Non solo perché è stato creato da un regista che nella sua vita ha scelto di abitare sull’altopiano, e all’altopiano sono legati i suoi collaboratori nella fotografia e nel montaggio e molti operatori organizzativi. Non solo perché la maggior parte degli interpreti e delle comparse del film vivono sull’altopiano, con i volti, le voci, i modi della gente dell’altopiano. Non solo perché racconta un momento della Grande Guerra combattuta realmente sull’altopiano con vicende catastrofiche negli anni 1915–1918. Non solo perché il film è stato tutto girato sull’altopiano, tra i pascoli della Val Formica, sotto il crinale di cima Portule, in “un plenilunio che odora di eternità”, come ha scritto un giornale (Il Fatto Quotidiano). Questo film è strettamente legato all’altopiano perché è nato dal suo paesaggio, dalla natura viva dei suoi cieli e dei suoi monti.
Nella presentazione del film, Ermanno Olmi ha più volte ribadito che in esso è “la natura che ha chiesto la parola”. È stata la natura a raccontare la storia dei luoghi, dei giorni (o meglio delle notti), la storia delle piante (i boschi carichi di neve, un larice bruciato da una granata), la storia di animali (le corse sulla neve di una lepre e di una volpe, i giochi di un topolino nella mano di un soldato), la storia di un gruppo di soldati sepolti nella neve in una trincea durante una notte dell’autunno nel 1917. È la natura che respira nel silenzio straziante di uomini e cose, silenzio che dona risonanze immense a disperate parole, silenzio dilaniato da laceranti esplosioni di bombe e granate che sembrano segnare la fine del mondo. È la natura che dà forma a un film definito come “un frammento di storia tra cielo e terra, una eco immensa di significati e di suggestioni”.
I giornali hanno scritto di “paesaggi di una bellezza da togliere il fiato” (Il Sole 24 Ore), di una bellezza “la cui pace si pone in evidente contrasto con la guerra che la sta attraversando”. Il film sembra uscire dalla conformazione geografica, dalle cavità carsiche dell’altopiano. Nei suoi silenzi assordanti, esso sembra urlare storie e parole a lungo trattenute nelle trincee, nelle gallerie, nelle cavità e nelle pietraie dei suoi monti. Con il carico immenso di dolore sofferto da centinaia di migliaia di morti, di feriti e di giovani soldati provati fino al limite della resistenza umana, il film viene a connotare profondamente l’identità storica e culturale dell’altopiano. In modo incisivo si è espresso Domenico Benetti, architetto di Asiago, che ha fatto la parte del sergente nel film: “Ho fatto una esperienza molto formativa. Diciotto giorni di riprese, spesso in condizioni ambientali pesanti. Ma ho vissuto tante emozioni e un sentimento di sincera appartenenza ai luoghi dell’altopiano, e al vissuto della Grande Guerra”.
Il film è dedicato da Ermanno Olmi al padre che quando lui era bambino gli raccontava della guerra dove era stato soldato. “Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell’età l’esaltazione della eroicità infiamma menti e cuori… Ero bambino quando lui raccontava a me e a mio fratello più grande del dolore della guerra, di quegli istanti terribili in attesa dell’ordine di andare all’assalto, e sai che la morte è lì che ti attende sul bordo della trincea. Ricordava i suoi compagni e più di una volta l’ho visto piangere”. Anche noi ricordiamo nonni, parenti, amici dei nostri paesi che hanno fatto l’esperienza di quel dolore e che ci chiedono di non dimenticare e di non ridurre il Centenario della Grande Guerra a una parata di discorsi, di pubblicazioni, di fanfare e di bandiere.
Presentando questo film, Stefania Longhini ha raccolto sul Giornale dell’Altopiano l’invito a non dimenticare e lo ha passato “a tutti, soprattutto ai giovani, perché sappiano e prendano coscienza”. Così, il Giornale dell’Altopiano potrebbe diventare un punto di riferimento per osservazioni, per riflessioni e per proposte. Sulla linea del suggerimento indicato da un autorevole giornalista esperto sull’argomento: “La guerra, e quella guerra in particolare, ha bisogno urgente di una narrazione nuova… La sfida è tremenda. Narrare la guerra richiede una capacità di evocazione inaudita. Di certo non bastano gli oggetti, le foto, i libri, le mostre… Serve andare sui luoghi, e nei luoghi evocare. In qualche modo, dobbiamo tentare di parlare con i morti, come in un rito religioso…” (Paolo Rumiz - La Repubblica). Come ha tentato di fare Ermanno Olmi con questo suo nuovo film. Dopo gli inverni desolati della guerra con tanta strage e con tanto dolore, dopo cento anni di tanta dimenticanza, di tanta ipocrisia e di tanta stupidità, forse “torneranno i prati”, anche sull’altopiano, con nuove primavere di speranza.